Dalla resistenza alla trasformazione

max artibani
11 min readApr 13, 2020

Da più voci intorno a me ascolto questa esortazione: resistere, è tempo di resistere, dobbiamo resistere. Certo resistere è importante, ma mi sembra tanto un attaccamento a ciò che avevamo, a quella che era la nostra vita prima, con la presuntuosa idea di sottofondo che quel modello non vada abbandonato, ci si debba ergere a baluardi di un’idea, una visione del mondo che ci ha permesso di progredire fino ad oggi e creare questo tipo di società che noi viviamo.

In Natura, sul pianeta che abitiamo, la resistenza a tutti costi è sinonimo di rigidità e morte, sparizione in termini evoluzionistici.

Allora probabilmente sarebbe più auspicabile parlare di resilienza, adattamento alle difficoltà. Resilienza è un termine più morbido che nasconde in sé l’idea di trasformazione. Ecco questo è il concetto che credo spieghi meglio la nostra posizione in questo momento. Se vogliamo sopravvivere a questo cambiamento che si è innescato, dovuto alla presenza oggi di questo virus con tutte le conseguenza che potrá avere domani, non dobbiamo resistere, bensì trasformarci, avere la capacitá di cambiare.

Si tratta di pensare nuovi modelli di organizzazione sociale, di cambiare la nostra visione egoica e ristretta a favore di uno sguardo più ampio ed inclusivo nei confronti dell’altro; è vero che dobbiamo mantenere le distanze fisiche, ma questo non vuol dire non comprendere chi abbiamo vicino come se fossimo noi stessi, con le stesse paure, con gli stessi bisogni, domande, dolori e gioie. Esiste una favola che ci esorta tra le righe allo sforzo di cambiamento che dovremmo compiere, s’intitola “il Ginepro” è una favola violenta, terribile, tragica e terribilmente naturale, come lo è questo tempo che stiamo vivendo.

Molto tempo fa, saran duemila anni, c’era un ricco che aveva una moglie bella e pia; si volevano molto bene, ma non avevano bambini. Essi li desideravano tanto ma, per quanto la donna pregasse il buon Dio giorno e notte, i figli non venivano mai. Davanti alla loro casa, in cortile, c’era un pianta di ginepro. Un giorno, d’inverno, la donna sedeva sotto il ginepro intenta a sbucciarsi una mela e, sbucciandola, si tagliò un dito, e il sangue cadde sulla neve. -Ah- disse la donna sospirando e, tutta mesta, guardava quel sangue -avessi un bambino rosso come il sangue e bianco come la neve!- Come ebbe pronunciato queste parole, gioì in cuor suo, come se avesse avuto un presentimento. Andò a casa e passò una luna e la neve scomparve; dopo due lune la terra tornò a diventare verde; dopo tre lune spuntarono i fiori; dopo quattro lune gli alberi del bosco si colmarono di linfa e i rami verdi si intricarono fitti: gli uccellini cinguettavano da far risuonare tutto il bosco e i fiori cadevano dagli alberi; passata la quinta luna, la donna se ne stava sotto il ginepro e l’odore della pianta era così dolce che il cuore le scoppiava di gioia, ed ella cadde in ginocchio per la grande felicità; dopo la sesta luna i frutti ingrossarono, ed ella si chetò; alla settima luna colse alcune bacche del ginepro e le mangiò avidamente e si fece triste e si ammalò; passò l’ottava luna, ed ella chiamò suo marito e disse piangendo: -Se dovessi morire, seppelliscimi sotto il ginepro-. Poi si consolò e tornò a rallegrarsi, fino a quando, trascorsa la nona luna, le nacque un bambino, bianco come la neve e rosso come il sangue, e quando ella lo vide, la sua gioia fu così grande che morì. Allora il marito la seppellì sotto il ginepro e pianse amaramente; dopo qualche tempo incominciò a calmarsi, pianse ancora un po’, poi di smise di disperarsi e, dopo un’altro po’, riprese moglie. Dalla seconda moglie ebbe una figlia. Quando la donna guardava la figlia, le voleva tanto bene; ma quando guardava il bambino, si sentiva trafiggere il cuore e le sembrava che egli la ostacolasse in ogni cosa. Pensava sempre a come fare avere a sua figlia tutta l’eredità; si mise a odiare il ragazzo, lo picchiava, sicché‚ il povero bambino aveva sempre tanta paura; Un giorno decise di ucciderlo e con la scusa di prendere una mela in una madia gli staccò la testa, ma fece in modo di fare credere alla figlia che fosse stata lei a staccargli la testa con una forte sberla -Marilena- disse la madre -cos’hai fatto! Ma chetati che nessuno se ne accorga, tanto non si può farci niente: lo cucineremo in salsa agra.- La madre prese il bambino e lo fece a pezzi, lo mise in pentola e lo fece cuocere nell’aceto. Ma intanto Marilena se ne stava lì vicino e piangeva e piangeva e le lacrime finivano tutte nella pentola e non c’era bisogno di sale. Quando il padre tornò a casa, si sedette a tavola e disse: -Dov’è mio figlio?-. In quel mentre la madre portò un piatto grande grande, pieno di carne in salsa agra, e Marilena piangeva da non poterne più. Allora il padre ripeté‚: -Dov’è mio figlio?-. -Ah- disse la madre -se n’è andato in campagna, dal prozio; vuol fermarsi un po’ là.- -Che ci va a fare? E senza neanche salutarmi!- -Be’ aveva voglia di andarci e mi ha chiesto se poteva fermarsi sei settimane. Starà bene là.- -Ah- disse l’uomo -mi dispiace proprio! Non è giusto, avrebbe dovuto dirmi almeno addio!- Detto questo, incominciò a mangiare e disse: -Marilena, perché‚ piangi? Tuo fratello ritornerà-. -Ah, moglie- aggiunse poi -che roba buona è mai questa, dammene ancora!- E più ne mangiava, più ne voleva e diceva: -Datemene ancora, e voi non mangiatene: è come se fosse roba mia-. E mangiava e mangiava buttando tutte le ossa sotto la tavola, finché‚ ebbe finito. Marilena intanto andò a prendere il suo più bel fazzoletto di seta dall’ultimo cassetto del suo comò, raccolse tutte le ossa e gli ossicini che erano sotto la tavola, li depose nel fazzoletto di seta e li portò fuori, piangendo calde lacrime. Li mise nell’erba verde sotto il ginepro, e come l’ebbe fatto si sentì meglio e non pianse più. Allora il ginepro incominciò a muoversi, i rami si scostavano e poi si riunivano di nuovo, come quando uno è contento e fa così con le mani. Poi dalla pianta uscì una nube e sembrava che nella nube ardesse un fuoco, e dal fuoco volò fuori un bell’uccello che cantava meravigliosamente e si alzò a volo nell’aria; e quando se ne fu andato, il ginepro tornò come prima e il fazzoletto con le ossa era scomparso. E Marilena era felice e contenta, proprio come se il fratello fosse ancora vivo. Se ne tornò a casa tutta allegra, si mise a tavola e mangiò. L’uccello intanto era volato via, si era posato sulla casa di un orefice e si era messo a cantare:-La mia mamma mi ha ammazzato e mio padre mi ha mangiato. Marilena, la mia sorella, l’ossa ha legato con la cordicella; una corda di seta ha usato, e sotto il ginepro ha tutto celato. Cip! Cip! Che bell’uccello ha qui cantato!-L’orefice era nella sua bottega e stava lavorando una catena d’oro quando udì l’uccello cantare sul suo tetto, e trovò quel canto bellissimo. Si alzò per uscire e perse una pantofola, ma volle andare lo stesso in mezzo alla strada, anche se aveva una pantofola e una calza. Aveva indosso il suo grembiule di cuoio e in una mano teneva la catena d’oro, nell’altra le tenaglie; e il sole splendeva illuminando tutta la strada. Si fermò a guardare l’uccello. -Uccello- disse -come canti bene! Cantami ancora una volta la tua canzone.- -No- rispose l’uccello -non canto due volte senza una ricompensa: se mi dai la catena d’oro te la canterò di nuovo.- -Eccotela- disse l’orefice -e ora canta ancora!- Allora l’uccello discese a prendere la catena d’oro, la prese con la zampa destra, si posò davanti all’orefice e cantò:-La mia mamma mi ha ammazzato e mio padre mi ha mangiato. Marilena, la mia sorella, l’ossa ha legato con la cordicella; una corda di seta ha usato, e sotto il ginepro ha tutto celato. Cip! Cip! Che bell’uccello ha qui cantato!-Poi l’uccello volò alla casa di un calzolaio, si posò sul tetto e cantò:-La mia mamma mi ha ammazzato e mio padre mi ha mangiato. Marilena, la mia sorella, l’ossa ha legato con la cordicella; una corda di seta ha usato, e sotto il ginepro ha tutto celato. Cip! Cip! Che bell’uccello ha qui cantato!-Il calzolaio l’udì e corse davanti alla porta in maniche di camicia. Guardò sul tetto e dovette ripararsi gli occhi con la mano perché‚ il sole non lo abbagliasse. -Uccello- disse -come canti bene!- E chiamò dalla porta: -Moglie, vieni giù, c’è un uccello che canta così bene!-. Poi chiamò sua figlia, i figli e i garzoni, il servo e la serva e tutti andarono in strada a vedere l’uccello. Com’era bello! Le sue piume erano rosse e verdi, e attorno al collo sembrava tutto d’oro, e gli occhi gli brillavano come fossero stelle. -Uccello- disse il calzolaio -cantami ancora una volta la tua canzone.- -No- rispose l’uccello -non canto due volte senza una ricompensa: devi regalarmi qualcosa.- -Moglie- disse l’uomo -vai in solaio; sull’asse più alta c’è un paio di scarpe rosse: portale qui.- La donna andò a prendere le scarpe. -Ecco qua, uccello- disse l’uomo -ora cantami di nuovo la tua canzone.- L’uccello scese a prendere le scarpe con la zampa sinistra, poi volò sul tetto e cantò:-La mia mamma mi ha ammazzato e mio padre mi ha mangiato. Marilena, la mia sorella, l’ossa ha legato con la cordicella; una corda di seta ha usato, e sotto il ginepro ha tutto celato. Cip! Cip! Che bell’uccello ha qui cantato!-Quando ebbe finito di cantare, volò tenendo la catena nella zampa destra e le scarpe nella sinistra. Volò lontano fino a un mulino, il mulino girava: clipp clapp, clipp clapp, clipp clapp. E nel mulino c’erano venti garzoni che battevano una macina con il martello: tic tac, tic tac, tic tac. E il mulino girava: clipp clapp, clipp clapp, clipp clapp. Allora l’uccello volò su di un tiglio davanti al mulino e cantò:-La mia mamma mi ha ammazzato-e uno smise di lavorare-e mio padre mi ha mangiato. — Altri due smisero di lavorare e ascoltarono — Marilena, la mia sorella,-altri quattro smisero di lavorare — l’ossa ha legato con la cordicella; una corda di seta ha usato,-solo otto battevano ancora-e sotto il ginepro-ancora cinque — ha tutto celato. — ancora uno — Cip! Cip! Che bell’uccello ha qui cantato!-Allora anche l’ultimo smise di lavorare e pot‚ ancora sentire la fine. -Uccello- disse quest’ultimo -come canti bene! Lascia che senta pure io, canta di nuovo.- -No- rispose l’uccello -non canto due volte senza una ricompensa: se mi dai la macina canterò di nuovo.- -Sì- disse l’uomo -se solo fosse mia te la darei.- -Sì- dissero gli altri -se canta di nuovo l’avrà.- Allora l’uccello scese e i mugnai, tutti e venti, con l’aiuto di una leva sollevarono la macina: Oh! oh, op! Oh, oh, op! Oh, oh, op! L’uccello vi introdusse il capo e la mise come un collare; poi tornò sull’albero e cantò:-La mia mamma mi ha ammazzato e mio padre mi ha mangiato. Marilena, la mia sorella, l’ossa ha legato con la cordicella; una corda di seta ha usato, e sotto il ginepro ha tutto celato. Cip! Cip! Che bell’uccello ha qui cantato!-Quand’ebbe finito di cantare, distese le ali e aveva nella zampa destra la catena, nella sinistra le scarpe e la macina intorno al collo; e volò via verso la casa di suo padre. Nella stanza il padre, la madre e Marilena erano a tavola, e il padre disse: -Ah, che gioia, mi sento felice!-. -No- disse la madre -io ho paura, come quando sta per arrivare un gran temporale.- Marilena invece se ne stava seduta e piangeva, piangeva. In quel mentre arrivò l’uccello e, quando si posò sul tetto, -Ah- esclamò il padre -sono tanto felice, e come splende il sole là fuori! è come se dovessi rivedere un vecchio amico!-. -No- disse la donna -io ho tanta paura: mi battono i denti ed è come se avessi del fuoco nelle vene!- E si strappò il corpetto e tutto il resto. E Marilena se ne stava seduta in un angolo a piangere, tenendo il grembiule davanti agli occhi, e lo bagnava di lacrime. Allora l’uccello si posò sul ginepro e cantò:-La mia mamma mi ha ammazzato-La donna si tappò le orecchie e chiuse gli occhi per non vedere e non sentire, ma le orecchie le rintronavano come se vi rumoreggiasse la tempesta e gli occhi le bruciavano come folgorati da lampi. -e mio padre mi ha mangiato. — Ah, mamma!- esclamò l’uomo -c’è fuori un bell’uccello che canta tanto bene! e il sole è così caldo! e par di sentire odor di cinnamomo. — Marilena, la mia sorella,-Allora Marilena mise la testa sulle ginocchia e si mise a piangere a dirotto, ma l’uomo disse: -Vado fuori, devo vedere l’uccello da vicino-. -Ah, non andare!- disse la donna -a me pare che tremi tutta la casa e che sia in fiamme.- Ma l’uomo uscì a guardare l’uccello. -l’ossa ha legato con la cordicella; una corda di seta ha usato, e sotto il ginepro ha tutto celato. Cip! Cip! Che bell’uccello ha qui cantato.-Terminato il canto, l’uccello lasciò andare la catena d’oro proprio intorno al collo dell’uomo, e gli stava a pennello. Allora l’uomo rientrò e disse: -Vedessi che bell’uccello! mi ha regalato una catena d’oro ed è così bello!-. Ma la donna aveva una gran paura e cadde a terra lunga distesa e la cuffia le cadde dalla testa. E l’uccello cantò di nuovo:-La mia mamma mi ha ammazzato — Ah, potessi sprofondare sotto terra, da non doverlo sentire. — e mio padre mi ha mangiato-La donna stramazzò a terra, come morta-Marilena, la mia sorella, — Ah- disse Marilena -voglio uscire anch’io; chissà se l’uccello regala qualcosa anche a me!- E uscì-l’ossa ha legato con la cordicella, una corda di seta ha usato,-E l’uccello le gettò le scarpe. -e sotto il ginepro ha tutto celato Cip! Cip! Che bell’uccello ha qui cantato.-Allora Marilena si sentì felice e piena di gioia. Infilò le scarpette rosse, si mise a danzare e corse in casa. -Ah- disse -ero così triste quando sono uscita, e adesso sono così allegra! Che uccello magnifico! mi ha regalato un paio di scarpette rosse.- -No.- disse la donna, saltò in piedi e i capelli le si rizzarono sulla testa come fiamme -mi sembra che il mondo stia per crollare; uscirò anch’io: forse starò meglio.- Ma come oltrepassò la soglia, paff!, l’uccello le buttò la macina sulla testa, ed essa stramazzò a terra morta. Il padre e Marilena sentirono e corsero fuori: fumo e alte fiamme si sprigionarono dal suolo e, quando tutto cessò, ecco il fratellino che prese per mano il padre e Marilena. Tutti e tre felici entrarono in casa e si misero a tavola a mangiare.

Come vi avevo detto una favola macabra, che nasconde un momento importante.

Il capovolgimento dell’attenzione che si attua nel momento in cui sorge l’ispirazione. Raccogliere i resti piangendo costituisce il nostro atto di attenzione cosciente. la ragazza di fronte alla tragedia, al male manifesto è ispirata a compiere un gesto di riflessione interiore. Noi oggi piangiamo i resti dei nostri affetti, ci sentiamo colpevoli, ed in parte lo siamo perché abbiamo ascoltato e dato potere alla matrigna, questo sistema consumistico e ultracapitalista in cui viviamo, ma proviamo ad ascoltare la voce del loro sacrificio, ci dicono con il loro canto triste, che sono morti perché ormai era troppo tardi, tutti gli altri erano distratti a produrre per consumare, a tenere in piedi un grande meccanismo di produzione e consumo e loro si sono ritrovati ad essere solo numeri nella liturgia statistica dei vivi e dei morti del bollettino di guerra quotidiano. Non voglio assolutamente cadere nella retorica, ma si tratta di ascoltare ed onorare il loro sacrificio e cogliere l’intuizione di sognare una trasformazione. Se si parla di guerra allora è naturale parlare di mantenere la posizione, di difendere il baluardo dei nostri valori, ma di quali valori stiamo parlando? quelli che usano l’uomo come strumenti di produzione e consumo? come automi per il funzionamento della grande macchina neoliberista?

cogliamo invece l’intuizione del cambiamento e trasformiamo questo nostro grande consesso umano.

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